ANCHE L'OVVIO E' IN BILICO (CARLOS)

lunedì 15 ottobre 2007

Charlie il clown

Charlie è un lavoratore circense da quasi 40 anni, ha prestato il suo servizio in vari circhi italiani ed europei garantendo sempre dedizione e generosità.
Il suo vero nome è Carlo Clovis, nato a Paularo da emigranti canadesi, operaio il padre all’acciaieria di Tolmezzo, mezzadra la madre che divideva il suo tempo tra il grano e le grane per tirar avanti la famiglia.
Non propriamente figlio d’arte, Carlo cominciò ad interessarsi al suo futuro attraverso il cinema comico muto, ancora oggi dice che quei attori esprimevano in ugual misura un senso di tristezza e gioia che non avrebbe più trovato in nessun altro, se non in qualche suo personale maestro.
La tristezza è stata una questione ereditaria, i genitori carnici non erano abituati a ridere, al massimo riuscirono ad esprimere una smorfia tra il ridicolo ed il tragico il giorno del loro matrimonio.
Non c’era tempo per ridere, si doveva lavorare duramente, il divertimento significava essere persone poco serie e ancor meno credibili.
Carlo quindi, ci mise molto del suo, il primo terreno d’allenamento fu il campo di mais dove si nascondeva per provare le prime capriole.
Quando l’autunno seccava le foglie delle pannocchie, le usava come riempimento per le scarpe del nonno, grandi come canoe, che calzava per muovere i primi passi.
La cosa più difficile da reperire erano i trucchi per il viso, la mamma Onorina ovviamente non ne aveva, una donna carnica non li usava, lei era tutta d’un pezzo, dura come il granito e forte come un mulo.
Carlo s’ingegnava con infusi d’ortiche, castagne e zucche, che una volta raffreddati, creavano una pastella gommosa d’appiccicare al viso.
Da vecchie sedie, usate dalle galline per le uova, prendeva la paglia della seduta per improvvisare una parrucca.
Il pezzo forte era l’abito, ricavato squartando sacchi di farina, ricuciti con materiale usato per legare la vite, tappezzato da ogni cosa colorata, cartoncini, pezzi di vetro, e quattro enormi bottoni verdi strappati dal cappotto di nonna Lodovina, che da quel giorno lo indossava incrociando le braccia, anche quando doveva segnarsi la croce in chiesa, la domenica.
Per guardarsi usava quello specchio rotto e anticato dal tempo, appeso alla porta della legnaia, che il padre Vittorio usava per radersi, ungendo la lama da barbiere nella tinozza d’acqua e schegge di sapone di Marsiglia.
Nella stessa schiuma immergeva il viso per detergersi, per poi asciugarsi con quel asciugamano che tutti usavano per scopi diversi, che si reggeva ormai in piedi da solo.
Il primo camerino era uno spazio ritagliato tra pale, picconi, rastrelli e mangimi per gli animali, il porcile confinante dettava i tempi d’apnea.
I fan antesignani, non paganti, furono i cani di casa Clovis, accompagnati da qualche randagio che si fermava dove c’era la possibilita’ di una risata ed un tozzo di pane.
Con gli anni la passione sbocciò come i tulipani in primavera, Carlo non poteva e non voleva più nascondere la sua vocazione, in contrasto con i coniugi Clovis, causa la loro carnicità ed appartenenza territoriale.
Un figlio, l’unico maschio dopo tre femmine, strappato all’agricoltura e considerato lo scemo del villaggio.
Tra un compleanno ed una sagra, il Carletto riuscì nell’impresa di piangere per far ridere, divertire bambini e commuovere adulti, dai cortili alle piazze per poi entrare nella casa che gli spettava, il circo.
Quei lunghi solchi sul viso raccontano una vita, sono stati di tutti i colori e hanno cambiato l’umore di chi l’ha incontrati.
La più grande tragedia per un clown, però, si consuma in camerino, quando entri per iniziare o esci a fine spettacolo.
C’è un momento in cui la solitudine e la tristezza sono così presenti da sentirne l’odore, ti rapiscono per un momento così breve da sfiorare l’eternità.
Quel momento si ripete come il respiro, passi dall’ilarità al silenzio, dagli applausi alla commiserazione di essere intrappolato nel personaggio, che volevi fin da piccolo, che oggi butteresti nel cestino.
Il traguardo è ormai visibile perchè la pensione è vicina, calerà il sipario, in camerino la foto di Buster Keaton appesa al muro finirà, insieme alle solite cianfrusaglie, nella valigia dei ricordi.
Ma cosa farà un clown a fine carriera se non il clown?
Questo mestiere ancor prima d’essere un lavoro è una missione, un tormento che ti colpisce come un virus, la maschera non puoi nasconderla o eliminarla, perchè non è la seconda pelle bensì la prima.
La prossima estate riprenderanno le sagre, e c’è da scommetterci che lo ritroveremo in qualche piazza attorniato da urla di bambini festosi, insieme a qualche vecchio paesano, mai mosso dal paese natale, contento che Carletto il pagliaccio, sia tornato a casa.

(Coperton Buick)

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