ANCHE L'OVVIO E' IN BILICO (CARLOS)

venerdì 28 dicembre 2007

My friend Gino

Gino ha un debole per l’amicizia, e ne è spesso l’ultimo anello.
Debole perché Gino è all’antica, uno di quelli che cavalca slogan quali, meglio tre caffè che una cena, pur di vedere qualcuno.
Quattro castagne e mezzo bicchiere di vino sono, per lui, poco impegnativi e l’occasione o la scusa per ritrovarsi con qualche amico a parlare e divertirsi.
Gino, per quello che è, non si permette grandi filosofie, ha poca sensibilità artistica, ma è persona generosa ed allegra.
Qualche tempo fa però, qualcuno gli ha aperto gli occhi e chiuso il cuore,
dicendogli che è un retrogrado, un romantico, un perdente senza attenuanti, che il suo atteggiamento, questo suo vivere è out, fuori dal nuovo tempo , la tecnologia ha cambiato i sistemi, i rapporti e soprattutto la comunicazione.
Resosi conto che i suoi dogmi l’hanno isolato, vuoi per le castagne che non sono quelle d’un tempo, il vino che non trovi buono nemmeno sul collio, decide un giorno di visitare il centro commerciale e di stare nel centro del centro pur di scoprire le ultime novità.
Tra Ram, memorie e Gigabyte, compra tutto il possibile, spendendo più del dovuto, ma contento di essere al top dell’hi_tec.
Scopre così un mondo nuovo, il nuovo mondo, l’unico disponibile e possibile, quello della grande tecnologia.
Gino, non senza fatica, comincia ad usare un nuovo linguaggio, poco consono alla sua umanità, ma ricco di novità e stimoli.
Per uno statico come lui, abituato solo alla retromarcia, fare quel salto è stato difficile.
Ha soffiato la sua esile voce nella rete, e il miracolo della comunicazione ha compiuto la sua parabola.
Sua maestà il link, il collegamento con migliaia di mani tese, pronte a stringere le sue, un posto di nessuno ma di tutti, una enorme comunità di utenti pronti ad ascoltare, scrivere, parlare, scambiare, scaricare, mutare ogni identità a proprio piacimento; milioni di occhi che non vedi, ma che vedono te, pronti a compiacerti e coccolarti.
Ogni cosa a portata di click, un mondo per quanto virtuale sia, senza muri e confini, liberi di vagare nel grande etere alla ricerca di qualcosa o di qualcuno da comprare, vendere, amare o odiare.
Anche per Gino, abituato a fraternizzare a tavola, con castagne e vin novello, musetto e brovada o montasio e noci, è arrivato il tempo di gettare il passato nei rifiuti, prepararsi al accogliere nuovi e numerosi compagni di viaggio.
Tecnologia quindi, novità e progresso, fiducia e benessere, velocità, alta velocità, banda larga, sempre più larga, più prestante, capiente, sensuale e vogliosa di bit.
Non c’è più bisogno d’incontrarsi, d’una pacca sulla spalla, d’un bacio affettuoso.
Non c’è più bisogno d’un pugno sulla tavola per spiegare un’idea, vedersi con le nostre facce strane, spettinati e barbe incolte, sentire l’odore delle emozioni che fanno sudare.
Non è più tempo di guardarsi, capirsi, confrontarsi, è solo tempo di abbandonare il tempo, il modo e lo spazio che conosciamo.
Ora capisco che la tecnologia è, oltre che la libertà, la vera democrazia, l’inno della comunione tra scienza ed etica, il solo e vero mezzo di comunicazione tra popoli.
Certe espressioni quali, una volta, un tempo, c’era una volta, dovrebbero essere abolite per legge, comprese tutte quelle fregnacce di favole che umiliano ed offendono i nostri figli.
Quel povero cristo di Gino s’è costruito una casa di paglia, mentre in parte sorgeva un grattacielo di cristallo.
Domenica scorsa, spinto da chissà quale rigurgito, sono andato a trovarlo.
Al suono del campanello, la porta s’apre d’una fessura così sottile che non riesco a capire chi è, nemmeno da dentro immagino che qualcuno possa vedermi, quando sento un sussurro che m’invita ad entrare velocemente.
Che ci fai qui, esclama Gino con voce tremante, speriamo che nessuno t’abbia visto o seguito.
Dopo alcuni brevi momenti di confusione, decidiamo per la nostra incolumità, di uscire ed avviarci, in macchina, verso la montagna.
Parcheggio nella piccola piazza del paese, prendo una borsa dall’auto, e c’incamminiamo lungo il sentiero verso la collina.
Mentre tiro fuori la solita bottiglia di rosso, Gino mi dice che sono il solito stronzo, che s’ostina a rifugiarsi nel bacco.
Marciando, però, quella bottiglia, come Coppi e Bartali qualche decennio prima, ce la passiamo sorseggiando a canna come facevamo da ragazzini, quando aspettavamo il treno per tirargli contro il vuoto, che esplodeva come pioggia di diamanti.
I nostri respiri pesanti decidono la pausa, mentre i nostri sguardi s’incrociano, e noto i suoi occhi tagliati da crepe di sangue, a descriverne un sussulto, un momento d’emozione.
Provo vergogna ad aver trasgredito alle nuove regole, non è giusto ferire un amico anche se ha fatto altre scelte, non si può riportarlo indietro, quando lui ha deciso di andare avanti.
Non c’è peggior delitto che tradire l’amicizia, bisogna essere disposti alla sconfitta, accettare che il mondo cambia e noi con lui, senza bruciarsi troppo, concedendo qualcosa e difendere a denti stretti quello che conta.
Un amico perso è un cuore che rallenta, che perde i pezzi in una carcassa da rottamare.
E così lo riporto a casa, con un cenno del capo ci salutiamo e mi riavvio anch’io sconsolato in macchina.
Maledetta l’amicizia, non la puoi estirpare, sradicare, puoi ogni tanto tagliare, ma lei ricresce, respira, vive con te, per te se la vuoi.
La tecnologia è politicamente corretta, un file indesiderato è pane per il cestino, da svuotare poi come un posacenere.
Gino mi diceva che, era meglio tenersi in tasca sempre cinque centesimi di sentimenti, si sa mai quanto possa essere fredda la notte.
Torno a casa, gli farò una mail per scusarmi, forse no, mi verrà a cercare lui nella rete, tanto non ci sono segreti, è tutto alla luce del sole, sarò due di quei milioni di occhi che lo guardano e lo proteggono, da quelli fuori gioco come me, con nel cuore una ferita e due sogni nel cassetto.
Addio fratello, forse ci ritroveremo nel mondo che non abbiamo cercato, ma che ci ha inghiottito come marinai nella peggior tempesta.

(Coperton Buick)

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