La mela inizia a marcire...? Questo articolo è tratto dall'inserto Etica&Finanza del settimanale Vita. (S.B.)
CSR. Contestata la filiera del cellulare più trendy del momento
QUEL CHE NESSUNO DICE DELL’I-PHONE
di Christian Benna
Il “gioiello” della Apple viene assemblato in una fabbrica-fortezza cinese. Dove si lavora 60 ore per 75 dollari alla settimana. E anche sul resto della catena produttiva c’è mistero. La casa di Cupertino, incassa e tace...
Altro che video chiamate,surfate sul web e scaricare musica sul telefonino.
Ad iPhone City non c’è neppure il tempo per fare uno squillo a casa.
Sgobbando 15 ore al dì, risulta persino complicato consumare i pasti decentemente e schiacciare
in pace un pisolino in dormitorio, in compagnia di centinaia di persone.
Tanto più che con i 50 dollari raggranellati in busta paga a fine mese ci vorrebbe quasi un anno di salario per mettersi in tasca l’ultimo gioiello di casa Apple. Abbonamento escluso, iTunes sigillato.
Perché campano grosso modo così i 270mila abitanti-lavoratori di Longhua, fabbrica-fortezza nel cuore produttivo della Cina (a Shenzen) di proprietà della Hon Hai Precision Industry, multinazionale di Taiwan che vanta più di 20 insediamenti in tutto l’Oriente. Lì si sfornano le punte di diamante dell’elettronica di ultima generazione, designed by Apple, ma anche i pc di Dell, le Play Station della Sony le stampanti di Hewlett Packard, i cellulari di Motorola e Nokia.
Più di mille guardie di sicurezza tengono lontani da occhi indiscreti il tesoro - quotato alla Borsa di Taiwan - di Terry Gou, il grande capo e fondatore della società, del valore di circa 40 miliardi
di dollari di fatturato (10 in più di Apple), tutti esportati all’estero per la gioia - non sempre low cost - dei consumatori occidentali. A Longhua, Apple ha messo su la sua seconda casa:
iPod e iPhone vengono prodotti e assemblati qui. Ultimo anello di una lunga catena, fatta di mille componenti, ancora impossibile da ricostruire nel dettaglio.
Ma tanto è bastato per far inghiottire la “Mela” dalla tentazione del profitto a tutti i costi, dal baco della violazione dei diritti umani. Nel 2006 la multinazionale di Cupertino è stata pizzicata
per la prima volta. Un reporter britannico del Daily Mail è riuscito a intrufolarsi nella città e a farsi consegnare testimonianze di prima mano e fotografie sulle condizioni di igiene nei dormitori e sul luogo di lavoro.
Uno scandalo in prima pagina che ha subito fatto il giro del mondo.
Come era accaduto per Nike, dopo la scoperta di minori che cucivano le sue scarpe griffata in miseri capannoni cinesi, l’episodio ha acceso lo spirito di Social Responsability dei piani alti della multinazionale.
Beccata in flagrante, l’immagine soft di Apple è finita in palese contraddizione con il «Think
different» degli spot pacifisti con John Lennon e Gandhi.
Gli investigatori spediti in fretta e furia da Cupertino hanno riscontrato le violazioni dei più elementari diritti umani, almeno per un terzo dei lavoratori l’attività superava le 60 ore settimanali. La paga effettiva era di 75 dollari, 25 in più rispetto alla denuncia del giornale inglese. Il motto del Codice di condotta per i fornitori è stato riscritto a lettere cubitali («Apple non tollera questo genere di comportamenti»), minacciando severi provvedimenti.
L’audit annuale però ha cambiato poco o nulla. Perché a differenza di Nike, che si è sforzata di raccontare, sito per sito, che cosa succede sotto il tetto dei fornitori, la riconversione Apple
resta appesa alle buone intenzioni. Di tracciabilità della supply chain c’è poco o nulla, nero su bianco ci sono solo i risultati dei controlli su non specificati siti produttivi. Sul resto della filiera
vige ancora un enorme mistero. L’improvvisa notorietà ha costretto però Terry Gou a fare un passo indietro.
Da qualche mese, dopo l’ennesima incursione dei reporter (questa volta cinesi, subito messi alla sbarra con una richiesta di danni milionari), mr. Gou ha lasciato uno spiraglio aperto all’associazionismo sindacale. Ha poi incontrato la stampa internazionale,
il Wall Street Journal, e ha mostrato i progressi del suo compound da 7 km quadrati, dove ora sono allestite anche strutture di svago (fitness, ristoranti, un ospedale). Il bilancio sociale
della Hon Hanoi per ora è solo un’insegna luminosa sul sito. Ma di questo passo rischia di sorpassare Steve Jobs anche sulla Csr.
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