Da Elvis a Obama la storia siamo noi
Bruce Springsteen al Festival di Austin durante la sua conferenza
Musica e America nella lezione
di Bruce Springsteen
al South by Southwest di Austin
BRUCE SPRINGSTEEN
Nel 1964, quando ho preso in mano la chitarra, non
c’erano tutti questi gruppi e tutti questi chitarristi. Non c’era molta
musica da suonare: quando ho preso in mano la chitarra c’erano solo
dieci anni di musica rock da cui attingere. Pensate, è come se tutta la
musica pop fosse solo quella prodotta dal 2002 a oggi. È incredibile e
affascinante vedere che cosa è successo alla musica che ho amato per
tutta la vita. È diventata un nuovo linguaggio, una forza culturale, un
movimento sociale, anzi, un insieme di nuovi linguaggi, forze culturali,
movimenti sociali che hanno ispirato e vivificato la seconda metà del
XX secolo. Chi mai avrebbe immaginato che gli Stati Uniti avrebbero
avuto un Presidente che suonava il sax, uno che cantava canzoni soul?
Allora, un musicista rock trentenne era impensabile, oggi dal palco
guardo negli occhi gente che appartiene a tre generazioni diverse.
Il
commento più profetico che ho sentito sulla musica rock negli ultimi 25
anni l’ha fatto Lester Bangs, quando è morto Elvis Presley. Era il ’77 e
lui scrisse: Elvis è l’ultimo artista sul quale saremo tutti d’accordo,
d’ora in poi ognuno di noi avrà eroi diversi, non ci sarà più una
musica che ci unirà. E l’articolo si concludeva così: oggi non dovete
dire addio a Elvis, ma a voi stessi, a noi.
Ora che hanno
digitalizzato la mia musica, l’hanno messa in una nuvola di uno e di
zero, oggi che ho in tasca tutti i dischi che ho comprato da quando
avevo 13 anni, vorrei parlare di ciò che è immutabile, e cioè del nucleo
centrale della creatività, della forza della scrittura e
dell’immaginazione. Oggi parlerò di come ho messo insieme ciò che ho
fatto e siccome quest’anno Woody Guthrie avrebbe compiuto 100 anni,
vorrei mettere in relazione la mia formazione musicale e la sua musica.
In
principio, c’è sempre un modello. Il mio risale al 1956: Elvis in tv.
Quella sera capii che anche un uomo bianco poteva fare magie, che potevi
sfuggire all’educazione e al contesto sociale che ti opprimevano e
perfino migliorare il tuo aspetto grazie al potere dell’immaginazione.
Potevi creare un’identità che trasformava, te e gli altri. Elvis era il
primo uomo del XX secolo, il precursore della rivoluzione sessuale,
della lotta per i diritti civili, e infatti veniva da Memphis come
Martin Luther King. Creò arte marginale che conquistò subito il centro
della scena. Elvis e la televisione ci dettero accesso a un linguaggio
del tutto nuovo, una nuova forma di comunicazione e un nuovo modo di
vivere, di guardare il mondo, di pensare il sesso, la razza, l’identità,
la vita. Quando Elvis è finito in tv, lo si è ascoltato e visto, non è
stato possibile rimettere il Genio dentro la bottiglia.
Ma anche
prima che ci fosse Elvis, il mio mondo era stato messo sottosopra dalla
radiolina che stava in cima al frigorifero. Tra le 8 e le 8,30, ogni
mattina, il suono della musica pop arrivava nelle mie giovani e
impressionabili orecchie mentre facevo colazione. Il doowop, la musica
più sensuale che sia mai stata prodotta, il suono del sesso e delle
calze di seta. Poi il pop, Roy Orbison, il maestro dell’apocalisse
romantica che godeva nel girare il coltello nella piaga della tua
insicurezza adolescenziale. E Phil Spector, da cui imparai il potere del
suono. E i Beatles, dei silenti dell’Olimpo che in fondo assomigliavano
ai tuoi compagni di scuola. E gli Animals, brutti, sporchi e cattivi,
da cui ho imparato tutto.
E poi Dylan. Il posto in cui vivevo mi
sembrava irreale, da ragazzo. Negli Anni Sessanta tutto era falso,
sbagliato ma non c’era la lingua per dirlo, non c’erano le parole. Fino a
quando è arrivato Bob, che ci ha dato le parole e le canzoni. E la
prima cosa che ci ha chiesto è stata: «Come ci si sente a essere così
soli?». Ed era così, eravamo soli, nessuno capiva che il mondo stava
cambiando. Ma lui sì, e ci parlava direttamente, come fossimo degli
adulti. Bob è il padre della mia patria musicale, ora e per sempre.
Quando
avevo all’incirca trent’anni, cercavo disperatamente di crescere, di
trasformare la forma che mi aveva tanto appassionato in qualcosa di
adulto. Ascoltavo moltissima musica country, che però aveva in sé un
fatalismo tossico. Non c’era mai politica, in quella musica. Troppi
sensi di colpa, era come la domenica dopo un sabato sera in cui hai
esagerato nel far festa. Il country era come me, provinciale: non sono
mai stato un tipo giusto, ero un hippy per caso, non un bohémien, mi
sentivo un tipo qualunque con un talento leggermente al di sopra della
media che però mi costava molto lavoro, molta fatica. Mi mancava
qualcosa. Così, lessi la biografia di Woody Guthrie, e mi si aprì un
mondo di possibilità, come già era accaduto a Dylan quando l’incontrò. I
giorni di Woody erano i nostri, ma lui guardava oltre l’orizzonte. Il
fatalismo era temperato da un pratico idealismo. La sua voce divenne per
me importantissima. Anche se non smisi di amare Elvis, la semplicità
del pop degli Anni Sessanta, il rumore delle chitarre elettriche e pure -
devo ammettere - il lusso e l’agio di essere una star.
Tutto
acquistò un senso quattro anni fa, quando mi trovai in una strana
situazione. Mi trovavo a Washington. Al mio fianco c’era Pete Seeger, 90
anni. Faceva freddo, ma lui era come al solito in camicia. È l’erede
vero di Woody Guthrie, in tutto. Davanti a noi c’erano migliaia di
persone, dietro di noi il Lincoln Memorial, vicino a noi un presidente
appena eletto. Stavamo per cantare «This Land is Your Land», la canzone
più nota e bella di Woody Guthrie, e Pete mi ha detto, sotto voce: «La
dobbiamo cantare tutta, dall’inizio alla fine, senza saltare un solo
verso». E così abbiamo fatto. Quel giorno, Pete, io e generazioni di
americani abbiamo capito che ci sono cose che vengono da fuori e entrano
dentro di noi, diventano parte del cuore pulsante della nazione. Quel
giorno, tutti gli americani, bianchi e neri, di ogni fede, furono uniti
per un breve momento dalla poesia di Woody Guthrie. Forse Lester Bangs
non aveva del tutto ragione, c’è ancora un nomeche unisce tutti e oggi
siamo qui a celebrare un senso di libertà che è l’eredità più bella di
Woody Guthrie. Giovani musicisti, coltivate la contraddizione che è in
voi: se non vi renderà pazzi, vi farà più forti. Rimanete duri, affamati
e vivi. E ricordatevi che è solo rock and roll.
(A cura di Piero Negri)
LaStampa.it