Sono le 20.30 quando, accompagnato dalla mia dolce metà, entriamo nella hall del nuovo teatro G. Verdi in PN.
Dopo una veloce punzonatura e controlli di codici a barre, iniziamo l’erta che ci porterà in terza galleria.
Copriamo la distanza, non senza affanno, in 40 minuti primi, di poco superiore al record dell’Alpe Duex di Marco Pantani nel ’97.
Il primo brivido, lo provo quando getto lo sguardo oltre la balaustra di plexiglas verso la platea, con indifferenza e senso di vertigine vado a collocarmi al mio posto che è il n°16 della terza fila.
Siamo a circa 25 mt. di altezza rispetto al palco e a circa 48/50 mt. sopra il livello del mare, dominiamo addirittura lo stemma di Portus Naonis affisso sul tendone rosso.
Nei confronti di De Gregori è la mia prima uscita, un debutto rinviato da sempre, da quel 1978 anno di Mario Kempes ed i mondiali argentini; altri sono passati, 2 addirittura vinti e prima di rischiare il terzo, volevo chiudere la pendenza con l’amico Francesco.
Il teatro ha le sue regole ed i suoi orari, s’inizia puntuali quindi alla 21.00.
Il cantautore romano sfoggia un elegantissimo abito completo di cravatta e cappello, sembra un banchiere “Old time” uscito da un Western di Sergio Leone.
I suoi compagni di viaggio ricordano quelle band scapestrate da terza classe del Titanic, brano con il quale inizia il concerto.
Sette i musicisti presenti sul palco che danno subito la sensazione del set Unplugged, e la performance semi acustica che seguirà la definirei del tipo Italian Country Folk.
La Pedalsteel ed il violino caratterizzano il sound che pare sia nato a Dublino per arrivare a Nashville e rientrare nella nostra terra armoniosamente contaminato.
L’armonica a bocca e la Fisarmonica a mano completano il set strumentale; non rimane che salire a cavallo e perdersi nelle praterie oppure ballare sui tavoli di un vecchio Pub in Grafton Street.
La voce di Francesco è bellissima, rarefatta, emoziona con il passare dei brani, cresce d’intensità, raggiunge l’apice in alcuni momenti accompagnati dal solo piano.
Il tutto mi evoca molti ricordi legati soprattutto al fatto che stava nascendo in quel periodo l’idea che avrebbe partorito culturalmente i Buick, e come non pensare poi agli interminabili pomeriggi di Radio Zardo.
Nella seconda parte si svegliano pure le chitarre elettriche ed il pubblico si scolla dal culo le accoglienti poltrone rosse, per saltare, ballare e stemperare le emozioni accumulate.
De Gregori si permette anche un paio di Blues, ha nelle sue corde e nel suo cuore quel pezzo d’America che conta e che c’interessa.
Poche chiacchiere, qualche inchino e molta musica nelle due ore dello show, intervallate da una breve pausa, profondo ed entusiasmante, superiore alle mie aspettative, molto bello davvero.
Al triplice fischio, come ogni grande sfida che si rispetti, avviene lo scambio delle maglie, la mia è quella numero 11 color granata dell’Aurora stagione 76/77 di lana grossa, che al sol pensiero mi torna il prurito, e Francesco quella numero 7 di Nino del Frascati della leva calcistica del 68.
Spero ora che non passino altri trent’anni prima di un altro incontro, ma se così fosse, che li tempo ci ritrovi, cantante e sottoscritto, vivi e presenti.
(Coperton Buick)